Asmara, capitale del paese, conserva una chiara impronta del periodo coloniale italiano, negli edifici e nell’arte; ma oltre alle sue notevoli opere architettoniche e giardini perennemente fioriti, questa città è intimamente segnata dall’impronta lasciata dagli italiani nelle abitudini degli abitanti. Visitare Asmara è un viaggio a ritroso nel tempo, in un passato che un po’ è anche nostro perché appartiene ai ricordi dei nostri genitori, perché l’abbiamo studiato sui libri di storia e ripetutamente visto nei documentari alla televisione.
Si potrà ammirare il Palazzo Imperiale, in Liberation Avenue. Oggi palazzo del Governo, ospitava fino a pochi anni fa il National Museum. Era stato costruito da Ferdinando Martini, il primo governatore civile italiano dell’Eritrea, nel 1897, per essere il Palazzo del Governatore. Con il suo frontone sorretto da colonne corinzie e interni spaziosi, è considerato uno degli edifici in stile neoclassico più belli dell’Africa. Molto curati sono i suoi giardini sia quelli interni, che quello antistante. Non mancherà di affascinare il Teatro dell’Opera, costruito nel 1918 dall’architetto Cavagnari. E’ un bellissimo esempio di architettura eclettica, conserva un interno delizioso, a quattro piani di palchi e uno spettacolare soffitto art noveau affrescato da Saverio Fresa con scene, tra il neoclassico e l’art nouveau, di danza. Un tempo vi si esibivano numerose e famose compagnie, come quella di Renato Rascel o di Renato Carosone.
Cattedrale Cattolica di Santa Maria
Consacrata nel 1923, è ritenuta una delle più belle chiese in stile romanico lombardo al di fuori dell’Italia. L’interno della cattedrale è magnifico: l’altare è in marmo di Carrara, mentre il battistero, i confessionali e il pulpito sono in legno di noce italiano. L’interno è completamente affrescato. Il campanile della chiesa, in stile gotico, domina la città ed è il punto di riferimento della Harnet Avenue, la strada principale. E’ uno dei massimi monumenti della città. Dal campanile, che contiene otto campane, si gode di una bella vista panoramica. Le campane del campanile si confondono con la voce dei muezzin emanata dagli altoparlanti dei minareti e con le preghiere dei monaci ortodossi a testimonianza dell’atmosfera multi religiosa tipica delle grandi città orientali, e testimonianza della grande tolleranza religiosa che esiste in eritrea, dove convivere con le altre religioni è ormai un dato acquisito.
Cattedrale Copta Nda Maria
La chiesa, che è stata costruita nel 1938 durante l'occupazione italiana domina la città, essendo stata edificata su una collina. Costruita nel 1938 , è una curiosa combinazione di architettura italiana ed eritrea. La cappella d’ingresso è a pianta quadrata, sormontata da tamburo cilindrico con pitture di santi e coperta da tetto conico a largo spiovente. Ai lati, due brevi tratti di portico a travate di legno, con parete in fondo a struttura listata: notevoli i pannelli della trabeazione, di legno scolpito a motivi axumiti e l’arcosolio interno di legname dipinto, tratti dalla demolizione della vecchia chiesa primitiva. La chiesa, costruita (progetto dell’arch. E. Gallo, 1920) sull’area dell’antica, è preceduta da due torri quadrate, che servono come sacrestia e magazzino. Dal piazzale antistante la chiesa, si possono incrociare con lo sguardo le croci copte, il minareto della Grande Moschea e il campanile della Cattedrale cattolica.
La Grande Moschea
Ultimato nel 1938 da Guido Ferrazza, questo grandioso complesso coniuga elementi razionalistici, classici e islamici. La simmetria della moschea è accentuata dal minareto, che si innalza da un lato come una colonna romana scanalata al di sopra di cupole e archi tipicamente islamici. All’interno il “mihrab” (la nicchia che indica la direzione della Mecca) è impreziosito da mosaici e colonne in marmo di Carrara. Lo stile di Ferrazza risulta evidente anche nel disegno della maestosa piazza e nel complesso del mercato che circonda la moschea.
ASMARA
Asmara rappresentò un interessante esperimento architettonico radicale ideato dal fascismo, tutto proteso ad edificare in tempi brevi, secondo un progetto urbanistico di difficile comprensione per il quadro culturale dominante in Europa; è bene ricordare che Asmara fu edificata in sei anni a partire dal 1935, per soddisfare il bisogno di case dei nostri coloni, che portarono il numero di abitanti, in cinque anni, da 4.000 a 45.000; dal punto di vista architettonico la costruzione della città destò rispetto ed ammirazione, tanto che il famoso architetto Naigzy Gebremedhin ha scritto: «I coloni italiani in Eritrea usarono la città come una tela bianca per progettare e costruire la loro utopia in Africa»; fra l'altro, anche gli architetti, proprio perché lavoravano a grande distanza dalla madrepatria, poterono attivare un interessante sperimentalismo. Il centro storico della città eritrea è stato incluso nella lista dei cento siti storici più a rischio compilata ogni due anni dal World Monument Fund (Wmf).
«L'Asmara - dice il Wmf - ha una delle più alte concentrazioni del mondo di architettura modernista. Il suo centro urbano rappresentò un ardito tentativo di creare una città ideale», si legge nella motivazione della campagna per salvare dalle minacce dello sviluppo gli oltre 400 edifici rimasti del periodo della colonizzazione italiana.
Cimitero di Asmara
Situato su una collina dalla terra rossa, è un luogo pieno di luce e di colori. E’ uno dei luoghi più importanti per avere uno spaccato storico della vicenda italiana in Eritrea. Il cimitero è un giardino bellissimo in cui sono ospitate le tombe, civili e militari, e le cappelle votive di chi ha fatto questa fetta di storia italiana. Alcune tombe hanno bellissime sculture sia tradizionali che moderniste.
Garage Fiat Tagliero
L’edificio Fiat Tagliero è una stazione di servizio in stile futurista completata nel 1938 e progettata dall'architetto italiano Giuseppe Pettazzi che la progettò secondo forme avveniristiche che ricordano la figura di un aeroplano, con due ali in calcestruzzo di 15 metri di sbalzo. Secondo le leggi in vigore in Italia (e quindi anche in Eritrea) le ali avrebbero dovuto essere sostenute, ma i sostegni previsti in progetto furono rimossi il giorno prima dell’inaugurazione. Le ali tennero, e sono tuttora stabili.
MASSAWA
Per assaporare la Natura in Eritrea basta percorre una breve distanza dalla capitale e raggiungere uno sperone di roccia lungo la strada fra Asmara e Massawa: si chiama semplicemente Tredicesimo Chilometro. Lì si è sopra le nuvole. Perché da lì comincia il precipizio verso il Mar Rosso, verso Massawa.
L’altopiano più grande dell’Africa, all’altezza di quel chilometro senza nome, va in frantumi, crolla dagli oltre duemila metri di Asmara fino alle sabbie di una meravigliosa costa marina. Le nuvole, spesso, si accatastano lungo il ciglio dell’altopiano e non ce la fanno a scavalcarlo. Chi si affaccia dalle rocce del Tredicesimo Chilometro avrà la sensazione di trovarsi in volo sopra l’Eritrea. Se guarda verso sud vedrà anche un Monastero ortodosso come sospeso nel cielo. Attorno vedrà le braccia spinose dell’euforbia aggrovigliarsi l’una all’altra. E’ un posto da incanto africano.
Lungo la strada, ad una ventina di chilometri da Massaua faremo una breve sosta al monumento di Dogali, dove nel gennaio 1887 furono massacrati dai guerrieri abissini di ras Alula i cinquecento uomini comandati dal Col. De Cristoforis.
Finalmente arriviamo in vista del mare! Le due attraenti isole che formano Massawa si chiamano Taulud e Massawa, ed entrambe sono collegate alla terraferma tramite dei terrapieni che fungono da ponti.
Sull'isola di Taulud ci sono molti uffici governativi, come il palazzo originale del governatore, costruito nel 1872, la cattedrale Santa Maria, e l'originale stazione ferroviaria costruita dagli italiani. L'isola di Massawa contiene il porto, la parte più vecchia della città, che ha degli edifici corallini antichi e arcate che riflettono l'influenza turca, così come le moschee ancora più vecchie - la prima moschea islamica fu costruita in Eritrea - rappresentano l'influenza musulmana. Ci sono anche edifici costruiti in stile ottomano del XVIII secolo. Qui si trova la vecchia città moresca, coi suoi negozi splendidi, arcate, caffè e ristoranti che offrono cucina eritrea, araba, esotica e occidentale.
Informazioni sull’arcipelago delle Dahlak.
Le isole Dahlak politicamente fanno parte dell’Eritrea e si trovano nella parte meridionale del Mar Rosso.
Questo mare, per quanto relativamente piccolo, viene considerato dai geologi un vero e proprio oceano in formazione, a causa della separazione della placca africana da quella arabica, un processo simile a quello che ha formato l’Oceano Atlantico.
La forte insolazione dovuta alla posizione tropicale e alla scarsa copertura nuvolosa fanno del mare delle Dahlak uno dei più caldi del mondo, con una temperatura dell’acqua che varia tra i 26°C del periodo invernale e i 32°C di luglio e agosto.
Anche la salinità, 38 per mille alle Dahlak, è elevata, come conseguenza della forte insolazione, del relativo isolamento dall’Oceano Indiano e della mancanza di fiumi permanenti.
Le acque delle Dahlak sono biologicamente più ricche e produttive di quelle ben più famose del Mar Rosso settentrionale perché le Dahlak emergono da una bassa piattaforma continentale e i venti e le correnti locali riescono a smuovere dai fondali i sali necessari allo sviluppo del plancton.
Inoltre, per molti mesi all’anno una corrente costante entra dall’Oceano Indiano portando acque più ricche.
Una conseguenza dell’abbondanza di plancton però è che le acque sono spesso molto torbide.
Solo d’estate la visibilità migliora perché allora predominano venti da nord che spingono verso le Dahlak l’acqua più limpida del Sudan.
Grandissima è la varietà biologica del Mar Rosso e le acque delle Dahlak ne sono una dimostrazione.
Elevato è anche il grado di endemismo, cioè della percentuale di specie animali e vegetali con una ristretta distribuzione geografica.
Molte di queste vivono solo nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden dove si sono evolute in parziale isolamento dal resto dell’Oceano Indiano dalla presenza di acque fredde lungo le coste dello Yemen meridionale e dell’Oman. Altre specie sono ristrette al solo Mar Rosso e sono riuscite a sopravvivere alla crisi di salinità dell’ultima glaciazione quando il livello degli oceani si abbassò anche di 130-150 metri rispetto al livello attuale, rallentando l’ingresso di acqua nel Mar Rosso che si trasformò in un lago ipersalino inadatto alla vita della normale fauna e flora marina tropicale. In alcuni punti però, come nelle foci dei fiumi o all’ingresso meridionale del Mar Rosso, la salinità era meno elevata e queste specie sopravvissero.
Poi alla fine della glaciazione il livello degli oceani riprese a salire riportando 11.000 anni fa la salinità del Mar Rosso a livelli normali e ripopolandolo con tutte le specie tropicali che nel frattempo erano sopravvissute nel vicino Golfo di Aden.
Dahlak LE ISOLE
Le Dahlak sembrano zattere appena emergenti dalle onde. Le spiagge sono bianchissime perché costituite esclusivamente dalla distruzione del calcare delle barriere coralline. Ampi tratti della loro costa sono costituiti da basse falesie scavate alla base a formare spioventi di preoccupante stabilità.
Alla base della loro origine c’è l’erosione causata dal moto ondoso, accoppiato al pascolamento di molluschi gasteropodi che grattano la roccia alla ricerca delle alghe di cui si nutrono.
La presenza di queste strutture, in alcuni punti molto al di sopra del livello del mare o a 10-20 m di profondità, è una prova della continua emersione delle isole e dei cambiamenti di livello del mare. Nelle baie più riparate crescono le mangrovie, alberi tropicali appartenenti a varie famiglie accomunate dalla capacità di crescere nell’acqua marina, anche se in zone almeno parzialmente riparate dal moto ondoso. I germogli infatti riescono ad insediarsi solo in acque calme. È un ambiente ecologicamente molto importante perché costituisce un’oasi di alta produttività in un ambiente costiero per il resto desertico. Infatti le foglie e i rami morti arricchiscono il suolo e il mare di materiale organico che è alla base di una catena alimentare che comprende anche pesci di grande importanza economica. Il legno delle mangrovie è inoltre l’unico facilmente disponibile in un ambiente costiero quasi desertico e un progetto già iniziato sulla costa si propone di ripopolare alcune zone che erano state troppo sfruttate in passato. L’interno delle isole è dominato dal monsone di nord-est che risale d’inverno lungo il Mar Rosso, portando pioggia a tutta la metà meridionale. Sono meno di 200 mm all’anno, ma tanto basta per rinverdire le isole. Le Dahlak rientrano in quella che i fitogeografi chiamano “arbusteto e prateria arida etiopica”, ma non vi sono mai state ricerche botaniche approfondite e le più autorevoli risalgono ancora a quelle fatte alla fine dell’ottocento da Achille Terracciano, dell’Università di Sassari, che visitò una decina di isole e vi raccolse più di cento specie.
Anche la fauna è stata poco studiata e se non ci si sorprende per la presenza di una decina di specie di rettili, diverso è il caso per tre specie di anfibi.
Infatti non possono sopravvivere nell’acqua marina e devono essere giunti in zona quando, durante l’ultima glaciazione, la piattaforma rocciosa che comprende le Dahlak era collegata alla terraferma per l’abbassamento del livello del mare. Poche le specie di mammiferi: ratti neri, gatti e gazzelle, un paio di specie di pipistrelli, topi e toporagni ancora da identificare e in apparenza nient’altro. Tutto ciò che forse un tempo abitava le isole si è probabilmente estinto per il progressivo inaridimento e per l’azione diretta dell’uomo contro quelle specie che potevano essere un pericolo per sé e per le sue greggi.
Dahlak L'ORIGINE DELLE ISOLE
Le più di 200 Dahlak sono vere figlie del Mar Rosso. Infatti a differenza di tante isole che sono frammenti di continente o resti di vulcani, le Dahlak si sono formate da barriere coralline emerse a causa dei movimenti che riguardano la separazione della zolla arabica da quella africana. Tale separazione raggiunse uno sviluppo simile a quello attuale durante l’Oligocene (38-24 milioni di anni fa) formando un mare che era allora collegato a nord con il Mediterraneo e non a sud con l’Oceano Indiano. Alla fine del Miocene, tra i 5,7 e i 5 milioni di anni fa, il movimento verso nord dell’Africa quasi chiuse lo stretto di Gibilterra, rallentando lo scambio di acque con l’Oceano Atlantico. Molta più acqua evaporava allora di quella che entrava come una cascata dallo stretto di Gibilterra, il livello del mare si abbassò e la salinità aumentò.
Sul fondo si depositarono allora enormi strati di sali che sotto le Dahlak raggiungono uno spessore di anche più di 3 chilometri. Successivamente si chiuse il collegamento tra il Mar Rosso e il Mediterraneo e si aprì a sud una comunicazione con l’Oceano Indiano.
Pian piano l’erosione delle coste ricoprì i depositi salini con uno strato di argille, sabbie e ghiaie. I complessi movimenti della litosfera collegati alla separazione tra l’Africa e la penisola arabica portarono ad un graduale sollevamento della piattaforma che comprende le Dahlak e, quando il fondale marino non fu più profondo di 50 metri, iniziò la formazione delle spesse barriere coralline che costituiscono ora le rocce delle Dahlak.
Il processo di accrescimento dei coralli ebbe luogo soprattutto nell’ultimo periodo interglaciale, tra i 200.000 e i 120.000 anni fa,. e un po’ intorno agli 80.000 anni orsono, ma si interruppe quando, in contemporanea con l’ultima glaciazione (10.000 anni fa), l’acqua si raffreddò e il livello del mare calò esponendo all’aria le barriere coralline.
Con lo scioglimento dei ghiacciai il livello del Mar Rosso riprese a salire, ma raggiunse il livello attuale solo 5000 anni fa dando alle Dahlak l’aspetto che conosciamo.
I coralli che si ammirano oggi alle Dahlak sono perciò di origine recentissima.
La vera e propria formazione delle isole dipese però da movimenti tettonici locali, ancora in atto, causati dalle masse di sale sottostanti rocce sedimentarie più pesanti. Quando infatti si formava una faglia, una frattura negli strati rocciosi, le rocce pesanti sovrastanti gli strati salini potevano inclinarsi formando zone più elevate, le isole, e zone di mare più profondo.
Dahlak LE GAZZELLE
Chi costeggia la più grande isola dell’arcipelago, Dahlak Kebir, durante i mesi più caldi dell’anno, farebbe bene a scrutare con attenzione le spiagge perché potrebbe assistere all’insolito spettacolo di un branco di gazzelle intente a un “turistico” bagno rinfrescante. Sull’isola infatti vivono, a seconda delle stime, da 2000 a 9000 gazzelle di Sömmering (Gazella soemmeringi), che hanno trovato il modo di sopravvivere ad un clima ostile. All’oscuro della storia geologica delle isole, l’interpretazione popolare è che le gazzelle siano state importate dagli italiani, idea contraddetta dallo stesso Rüppel, lo zoologo tedesco che scoprì scientificamente questa gazzella durante un viaggio all’inizio del XIX secolo. Infatti, pur non essendo andato a Dahlak Kebir, informava che la specie era presente su quell’isola, decenni prima dell’arrivo degli italiani. Non si può escludere che le gazzelle siano state importate dall’uomo in un periodo precedente, ma le caratteristiche peculiari di questa popolazione fanno credere il contrario. Sono infatti gazzelle piuttosto diverse da quelle del continente, in particolare per le ridotte dimensioni. Questo nanismo insulare è un fenomeno molto frequente nei grandi mammiferi, forse come conseguenza evolutiva dell’assenza di predatori, ma è un fenomeno che richiede probabilmente un periodo piuttosto lungo per realizzarsi. La spiegazione più probabile della presenza delle gazzelle è che siano arrivate sulla isole coi loro “piedi”, quando alla fine dell’ultima glaciazione le pianure di Dahlak Kebir erano unite a quelle della attuale costa eritrea per il ritiro del mare. Sono sopravvissute solo su Dahlak Kebir perché probabilmente solo un’isola così estesa è riuscita a mantenere una popolazione sufficientemente grande da proteggerle dalle fluttuazioni dovute al prevedibile sfruttamento umano durante i millenni passati e dall’imprevedibile diffondersi di epidemie. In tempi più recenti la loro sorte è stata, ed è, favorita anche dalla benevolenza delle popolazioni locali che non le uccidono, aderendo alla credenza che Dio mandi la pioggia non per l’uomo, ma per gli animali selvatici, che quindi vanno protetti per non irritare chi potrebbe per anni chiudere il rubinetto del cielo. Attualmente quindi le gazzelle di Dahlak Kebir non corrono gravi pericoli, ma è importante pensare ad una protezione a lungo termine anche considerando che si tratta di una popolazione così differenziata da poter essere considerata una sottospecie a sé stante, se non addirittura una specie vera e propria, come ipotizzato da Jonathan Kingdon, esperto di mammiferi africani.
Dahlak GLI UCCELLI
Sono pochi i nomi eritrei che si riferiscono agli uccelli, sintomo che in Eritrea gli uomini non li degnano di uno sguardo, neanche di quello assassino. Infatti se si esclude la raccolta di un po’ di uova e di pulcini di alcune specie coloniali, gli uccelli delle Dahlak possono condurre la loro esistenza quasi indisturbati dall’uomo. La mancanza di sviluppo moderno delle isole ha inoltre salvato le Dahlak dai quei disastri ecologici che hanno invece afflitto altri arcipelaghi. Non vi sono uccelli endemici delle Dahlak, vista la loro recente origine, ma le isole sono una zona di nidificazione di importanza mondiale per molte specie come la sula bruna (Sula leucogaster), il falco unicolore (Falco concolor), il gabbiano occhibianchi (Larus leucophtalmus) e la droma (Dromas ardeola). Alcune specie si riproducono durante l’inverno, quando le sporadiche piogge ricoprono le isole di un manto verde, e insetti e semi diventano abbondanti. Altre specie, come i numerosissimi falchi pescatori (Pandion haliaetus), preferiscono la stagione invernale, forse solo per poter lasciare i pulcini da soli durante le battute di pesca senza correre il rischio di ritrovarli rinsecchiti dal sole. Molti uccelli marini come sterne, sule e i gabbiani occhibianchi, preferiscono invece la torrida stagione estiva, che coincide però con una abbondanza di pesci della giusta dimensione per nutrire i propri pulcini. Pure d’estate nidificano le droma, insoliti uccelli che hanno eletto le isole dell’Eritrea quale loro zona riproduttiva più importante al mondo. Sono begli uccelli di ripa che si nutrono di granchi e che nidificano in colonie in lunghe gallerie che scavano nella sabbia per proteggere l’uovo e il pulcino dal caldo eccessivo e dagli uccelli predatori. Le Dahlak si trovano su una importante rotta migratoria e sono migliaia gli uccelli che vi sostano per rifocillarsi. In particolare, le estese aree fangose o sabbiose esposte durante le basse maree pullulano di limicoli in corrispondenza delle migrazioni da e per l’Europa e l’Asia. Molti inoltre vi svernano perché l’alta temperatura invernale permette l’attività continua delle prede di cui si nutrono. L’interno delle isole invece è importante per la sosta di molte specie non legate agli ambienti umidi; queste però non sempre trovano l’acqua dolce di cui abbisognano per abbeverarsi, soprattutto in autunno, quando le isole non vedono pioggia da sei mesi e quindi vi sostano solo il tempo necessario per riprendersi dalle fatiche del viaggio. Un serio e approfondito studio sulla rotta migratoria che passa per le Dahlak non è ancora stato fatto, ma è certo che qualcuno considera le isole importanti per la migrazione e ne trae le dovute conseguenze. Sono le centinaia, forse migliaia di falchi unicolori che verso marzo giungono alle Dahlak dalle zone di svernamento in Madagascar e in Mozambico per tirar su famiglia a spese degli esausti migratori che cercano riposo sulle isole.
Dahlak LA STORIA ANTICA
I resti più antichi di una presenza umana sulle isole sono probabilmente le schegge di ossidiana, importata dalla costa dancala, che si rinvengono sul suolo di molte isole. L’ossidiana è stata usata in Eritrea per almeno centoventimila anni fino ai primi secoli dopo Cristo e una datazione non è quindi immediata. L’archeologo Blanc studiò nel 1955 le ossidiane di Dahlak Kebir e datò questi manufatti al mesolitico, alla cultura wiltoniana. Industrie microlitiche sono note di altre zone dell’Eritrea nel VIII e VII millennio a.C. in un periodo in cui il livello del mare era forse ancora così basso che alle Dahlak si poteva andare a piedi. Una interpretazione più recente da parte di un gruppo di ricerca canadese suggerisce invece una origine neolitica, quando durante il tardo III millennio a. C., in risposta ad un clima che andava inaridendosi, le popolazioni della costa africana si misero in movimento: alcune si stabilirono alle Dahlak, altre giunsero fino alle coste dello Yemen dove si trovano ossidiane di simile tecnologia. Gli antichi egizi iniziarono a discendere il Mar Rosso nel III millennio a.C alla ricerca di merci preziose, soprattutto della mirra, fondamentale nei processi di imbalsamazione. La regione visitata era chiamata Punt, che attualmente viene identificata da molti studiosi con l’Eritrea settentrionale, ma non è affatto escluso che gli egizi giungessero anche alle Dahlak. A parte alcune interruzioni, dovute alle crisi interne, i commerci egizi continuarono fino al 1000 a.C., quando furono sostituiti da quelli ebrei e fenici. Nello stesso periodo si ha l’inizio di una migrazione attraverso il Mar Rosso, concentrata soprattutto tra il VII al V secolo a. C., di popolazioni semitiche provenienti dalla Penisola Arabica, che col tempo diedero origine alla civiltà axumita che finì per controllare a lungo anche la costa eritrea e le isole. Con la conquista dell’Egitto da parte dei Persiani nel 525 a.C. i Greci ebbero il permesso di iniziare i loro commerci nel Mar Rosso; questi ebbero ulteriore impulso con l’arrivo in Egitto dei Greci di Alessandro Magno nel 305 a. C. e poi dei Romani nel 30 a.C. Ai tempi di Augusto ben 120 navi all’anno lasciavano l’Egitto per recarsi lungo le coste dell’Africa nordorientale e in India alla ricerca delle spezie che a Roma venivano pagate a peso d’oro. Un commerciante greco, probabilmente del I secolo dopo Cristo, scrisse il “Periplo del Mare Eritreo”, vere e proprie istruzioni nautiche che permettevano al navigatore di recarsi fino al Bab el-Mandeb, a Socotra e anche in India. Il testo descrive tra l’altro lo scalo di Adulis, sulla costa di fronte alle Dahlak, e continua con: “davanti al porto, in mare aperto a destra, c’è un grande gruppo di piccole isole sabbiose dette di Alalaeo, che producono gusci di testuggine, che sono portati al mercato dai mangiatori-di-pesce”. Le Dahlak e i suoi abitanti fanno così la loro prima apparizione sicura nella storia. Almeno una nave però non ritornò indietro, a giudicare dai ritrovamenti del carico di anfore di una nave del IV-VII sec. d.C. nei bassi fondali di Assarca.
Dahlak LA STORIA MEDIOEVALE
Col declino dell’Impero Romano il controllo dei commerci passanti nel Mar Rosso meridionale fu preso dagli Axumiti, i signori dell’altopiano etiopico. Le Dahlak erano poste a cintura davanti al loro porto principale, Adulis, e quindi rientravano nella loro sfera di influenza. Alcuni resti di edifici axumiti si trovano in due villaggi dell’isola più grande, Dahlak Kebir. Famosissime sono le molte cisterne scavate nella roccia corallina nei dintorni dei villaggi di Dahlak Kebir e Adal. Raccoglievano l’acqua che scorreva in superficie anche per mezzo di appositi canaletti e fornivano da bere a una popolazione ben maggiore di quella attuale, costituita certo anche dagli schiavi africani che per un millennio transitarono sulle Dahlak in attesa di una meta definitiva. La tradizione locale vuole che le cisterne siano state costruite, come tutti i resti antichi di cui non si sa l’origine, dai Furs, i persiani, ma niente si sa di certo sulla loro origine. Alcune di queste cisterne sono ancora in uso. Nel 702 gli Axumiti arrivarono fino a Gedda, il porto della Mecca, e provocarono una storica risposta. Gli Arabi conquistarono la costa eritrea e si installarono anche alle Dahlak, che da allora diventarono mussulmane. Inizialmente gli Arabi non diedero molta importanza alle isole che furono usate soprattutto come luogo di punizione per gli avversari della dinastia araba regnante. Man mano però la loro importanza crebbe perché erano fondamentali per rendere sicure le rotte dei pellegrini verso la città santa. Il controllo totale del Mar Rosso da parte degli Arabi permise per secoli commerci sicuri e le Dahlak pian piano si arricchirono con i traffici di schiavi, con il commercio delle spezie e con la raccolta delle perle, che fu insegnata probabilmente da pescatori dell’Oman o del Golfo Persico. Inoltre Dahlak Kebir era uno scalo obbligato per le navi di passaggio che si rifornivano d’acqua nei suoi numerosissimi pozzi e cisterne. A lungo le isole furono costrette a pagare tributi ai signori della Penisola Arabica sotto forma di schiavi, ambra e pelli di pantera, ma i reggenti di Dahlak Kebir si affrancarono sempre di più dal controllo yemenita e diedero origine ad un sultanato indipendente, che durò dalla fine dell’XI all’inizio del XVI secolo. Di questo periodo è la necropoli di Dahlak Kebir dove centinaia di steli funerarie ci danno uno spaccato della ricca storia dell’isola. L’isola fu anche importante politicamente perché era una testa di ponte per la penetrazione dell’islamismo in Africa, posta com’era alla frontiera del mondo islamico, a contatto con le terre poste sotto il dominio dei cristiani dell’altopiano etiopico.
Nel XV secolo risorse la potenza etiopica e per ben due volte il villaggio di Dahlak Kebir venne saccheggiato.
Dahlak LA STORIA MODERNA
La fine del periodo aureo delle isole prese le sembianze delle caravelle portoghesi che comparvero nel Mar Rosso all’inizio del XVI secolo. I portoghesi infatti, dopo aver scoperto come circumnavigare l’Africa, approntarono una flotta ben armata per strappare il commercio delle spezie tra il Mediterraneo e l’India dalle mani degli Arabi e dei Veneziani. I Portoghesi iniziarono a distruggere tutte le navi arabe che incontravano e a bombardare, se non a saccheggiare, i porti arabi della regione. Anche il villaggio di Dahlak Kebir, centro principale del sultanato, fu cannoneggiato nel 1526. L’impresa dei Portoghesi ebbe successo e il commercio delle spezie prese un’altra rotta. Il Mar Rosso cadde pian piano dalle mani degli Arabi a quelle dei Turchi che arrivarono alle Dahlak nel 1557. I Turchi preferirono il porto sudanese di Suakin a quello di Dahlak Kebir, che da allora cadde nell’oblio, anche se non si interruppe il commercio di schiavi e di perle. Quando l’impero turco entrò in crisi, iniziò l’espansione dell’Egitto che nel 1846 si impossessò della costa eritrea e delle Dahlak. Nel 1885 sbarcarono a Massawa gli italiani, che volevano a tutti i costi partecipare alla corsa per la spartizione dell’Africa, accelerata dal completamento nel 1869 del Canale di Suez. Gli italiani diedero impulso alla pesca, costruirono a Nocra un carcere famoso per le dure condizioni cui erano sottoposti i carcerati e usarono le rocce delle isole per la ricostruzione di Massawa distrutta da un terremoto nel 1921. La seconda guerra mondiale interessò le Dahlak solo marginalmente con alcune azioni di marina o di difesa costiera degli italiani contro navi inglesi. Nel 1941 gli italiani, per proteggere Massawa da un possibile attacco via mare, installarono postazioni d’artiglieria su molte isole. Fu tutto inutile perché gli inglesi conquistarono l’Eritrea via terra. Due navi, ora relitti ambiti dai subacquei, vennero affondate per non essere lasciate in mano agli inglesi. Poi è storia recente: le isole restano sotto il controllo inglese fino al 1950, poi fanno parte di un’Eritrea confederata all’Etiopia fino a passare sotto un ferreo controllo Etiopico dal 1959. Gli etiopici sfruttarono le costruzioni italiane a Nocra trasformandole in una base militare navale, che fu data anche in uso ai russi, alleati contro la ribelle Eritrea. Le Dahlak videro anche un po’ di guerra di liberazione, con i guerriglieri eritrei dell’EPLF, che con veloci motoscafi facevano incursioni per colpire a colpi di mortaio le postazioni etiopiche sulle varie isole, compresa la base di Nocra. Con la liberazione di Massawa, nel 1990, la base navale fu abbandonata in fretta e furia dagli etiopici, ma prima ne fu distrutto il pontile, inabissati carri armati e lanciarazzi katiuscia, affondate le navi che non potevano andarsene. Dal 1993 le Dahlak fanno ufficialmente parte della neonata Eritrea.
Popolazione
Ittiofagi, mangiatori di pesce, vengono chiamati gli abitanti delle Dahlak dal commerciante greco che scrisse quasi duemila anni fa il “Periplo del Mare Eritreo”. E ben si capisce, visto che le isole non offrono molto altro a causa della scarsa piovosità. A dir la verità, qualche tentativo di coltivazione ci deve anche essere stato, almeno a leggere il resoconto della visita a Dahlak Kebir fatto da Arturo Issel, un geologo italiano che, verso il 1870, osservò piccole coltivazioni di sorgo nei pressi del villaggio di Jemila. Qualche coltivazione è stata tentata anche in questo secolo, ma non deve essere stata un grande successo visto che al giorno d’oggi le uniche fonti alimentari locali sono la pesca e l’allevamento di capre. Tutto il resto deve essere importato dai commercianti dell’isola. Passate di mano tante volte, le isole sono un crogiuolo di etnie, ma solo Dahlak Kebir, Norah e Dohul sono abitate dopo il recente abbandono di Harat e Nocra. Tutti gli abitanti, forse 2000, sono mussulmani. Molti si dichiarano eredi del sultanato e parlano una lingua semitica tutta loro, scoperta solo pochi anni fa, il dahlik, imparentato con il tigrino, la lingua dell’altopiano eritreo. L’anima commerciale però fa sì che molti, soprattutto gli uomini, siano plurilingui ed è perciò facile incontrare qualcuno che parla l’arabo, l’italiano, l’amarico o il tigrino. L’isolamento dell’arcipelago ne ha ritardato il moderno sviluppo e la maggior parte dei villaggi abitati si dibatte col problema maggiore, la scarsità d’acqua, che per di più non è mai potabile. Le infezioni intestinali, oltre a problemi agli occhi, sono perciò le malattie che più affliggono i locali. La malaria per fortuna non c’è perché le zanzare che la trasmettono non trovano sulle isole gli ambienti adatti alla loro riproduzione. Qualche segno di progresso per fortuna c’è. Cliniche e scuole elementari sono state costruite in diversi villaggi, anche se per frequentare le scuole secondarie bisogna trasferirsi a Massawa. A Jemila, sull’isola maggiore, c’è una stazione telefonica e sulle case di Dohul sono numerose le antenne paraboliche. Tramontata l’era delle perle e, per fortuna, della tratta degli schiavi, le attività economiche si riducono all’allevamento di capre e alla pesca. Quest’ultima è in parte di sussistenza, in parte commerciale anche se fatta per lo più con tecniche antiche e con l’uso dei tradizionali sambuchi. Si pescano cernie, dentici, barracuda e pesci d’alto mare con l’uso di lenze; i pescecani e i gamberetti con le reti; le oloturie con brevi immersioni in apnea. Una parte del pesce fresco viene esportato in Europa, le pinne di pescecane e le oloturie vanno verso il lontano oriente, il resto rifornisce il mercato interno. Qualche villaggio tenta anche di raggranellare qualche nakfa, la moneta eritrea, con la vendita di conchiglie ai turisti. Forse la costruzione di piccoli complessi turistici porterà qualche soldo in più.
Dahlak IL TURISMO
“Questa è la tua casa” sembra essere una possibile etimologia araba di Dahlak, ma il benvenuto le isole lo danno a fatica, dopo decenni d’isolamento dovuto alla guerra di liberazione dell’Eritrea dall’Etiopia, e pochi sono i turisti che sono riusciti a visitare queste perle del Mar Rosso. Il lato positivo è che il lungo isolamento ne ha preservato quasi intatta la natura e il fascino dell’inaccessibilità. Il mare, caldo tutto l’anno, permette la visita alle isole in tutte le stagioni. Solo luglio e agosto sono quasi insopportabili e allora più che mai un’escursione alle isole deve essere accompagnata da una bella scorta di ghiaccio. Le acque, le più produttive del Mar Rosso, pullulano di vita e basta una nuotata a ridosso della barriera corallina con maschera e pinne per avere l’impressione di un tuffo in un gigantesco acquario tropicale. Tartarughe, mante e delfini sono ancora comuni. Non gli squali, per la tranquillità di molti, per la delusione di alcuni. Quasi impossibile invece vedere i dugonghi (Dugong dugon), i mammiferi marini che diedero origine al mito delle sirene. Questi animali si nutrono di piante acquatiche che crescono in acque basse e fangose. Non è certo il tipo di ambiente normalmente apprezzato dai turisti, ma non è escluso che in futuro si sviluppino, come già succede in Australia, delle attività ricreative quali il dugong-watching. Per chi non si accontenta dello snorkeling c’è la possibilità di farsi condurre dalle esperte guide dell’Eritrean Diving Center di Massawa nell’esplorazione di fondali ancora poco conosciuti. Da non trascurare sono poi i numerosi relitti appoggiati su bassi fondali o in parte emergenti, anche se per il momento sono chiusi al pubblico due dei relitti più interessanti, quelli delle navi italiane Urania e Nazario Sauro. Per le immersioni subacquee il periodo estivo è quello consigliabile a causa dell’acqua più limpida. Infatti la torbidità, dovuta soprattutto all’abbondante plancton, riduce la visibilità sott’acqua a pochi metri per la maggior parte dell’anno. Le isole brulle e prive d’acqua sembrano a prima vista poco attraenti, ma riservano molte sorprese: le gazzelle di Dahlak Kebir, abbastanza confidenti a causa della protezione accordatagli dai locali; le ricche popolazioni di uccelli migratori o nidificanti, i resti archeologici del villaggio di Dahlak Kebir; l’impagabile emozione d’imbattersi in schegge d’ossidiana o in cocci di antiche anfore. Come alloggio per ora i turisti trovano un solo albergo, sull’isola maggiore, di fronte a Nocra, ma è prevista la costruzione di alcune altre strutture ricettive di scarso impatto ambientale. I grandi complessi alberghieri invece mal si adattano allo spirito delle isole e si spera che non vengano mai costruiti. Immutata rimarrà in ogni caso la possibilità per i turisti più avventurosi e più organizzati di campeggiare su alcune isole deserte aperte al turismo e di vivere la robinsoniana esperienza di essere i soli abitatori di un mondo ancora incontaminato.
Dahlak LA CONSERVAZIONE
Pochi anni fa una piattaforma di ricerche petrolifere si ergeva dalle acque tra Dur Gham e Dur Ghella, segno tangibile che l’Eritrea si aspettava dalle isole un doveroso e sostanzioso contributo allo sviluppo di una nazione povera di risorse. Il petrolio non fu mai trovato, ma rimase l’esigenza di uno sviluppo produttivo delle isole. Le Dahlak hanno le carte in regola per aiutare l’Eritrea soprattutto nel campo della pesca, attualmente in fase di grande sviluppo, e del turismo, sempre alla ricerca di mete nuove e di esperienze a contatto con la natura. Queste forme di sviluppo portano però con sé anche alcuni rischi. Lo sfruttamento delle risorse marine potrebbe aumentare al punto da mettere in pericolo l’industria stessa in caso di pesca eccessiva ed incontrollata, come è successo in tante aree del mondo una volta pescose. Le prime a farne le spese potrebbero essere alcune specie molto ricercate come gli squali o anche catturate accidentalmente con le reti, come le tartarughe marine e i dugonghi. Il turismo porta con sé rischi di inquinamento, legati alla costruzione di complessi alberghieri, rischi di locali danneggiamenti della barriera corallina, e rischi di alimentare una dannosa raccolta di organismi marini come coralli e conchiglie. Una seria gestione della pesca e un’educazione dei turisti e delle popolazioni locali sono quindi fondamentali per una prospettiva di conservazione a lungo termine della biodiversità e della produttività delle isole, in vista di un’auspicabile sviluppo economico dei pochi villaggi rimasti. Il governo eritreo si è mosso fino ad ora in modo cauto ed ecologicamente sensibile quando si è trattato di progetti di sviluppo delle isole, e ne ha aperte solo poche al turismo, nell’attesa che studi più approfonditi indichino cosa è opportuno sviluppare e cosa è meglio preservare. Fondamentale è che almeno alcune isole, quelle più interessanti dal punto di vista biologico, siano lasciate incontaminate e vengano istituzionalmente e praticamente protette, sperando che impellenti necessità economiche non facciano passare in second’ordine la filosofia di uno sviluppo sostenibile. Già ai tempi degli etiopici esisteva un progetto per un parco nazionale marino che includeva alcune delle isole più vicine a Massawa, ma è sempre rimasto sulla carta. Ora esiste un grosso progetto finanziato dalla Global Environment Facility e messo in opera dal Ministero della Pesca eritreo e dal United Nations Development Program (UNDP) per studiare la biodiversità delle isole, del mare e della costa eritrea e per favorirne la conservazione e l’uso sostenibile, unica speranza per salvare le Dahlak dalle sconsiderate distruzioni che hanno afflitto tanti altri arcipelaghi.
Dahlak ABBIGLIAMENTO E ATTREZZATURE
Abbigliamento
felpa o pullover
K-way o poncho
un paio di pantaloni lunghi leggeri
almeno un paio di pantaloncini corti
T-shirt a volontà (magari una maniche lunghe)
una tuta da ginnastica (meglio se comoda e calda, da utilizzare anche come pigiama)
almeno due costumi da bagno
un pareo
un telo da mare
almeno un asciugamano
cappello o berretto
scarpe da ginnastica o sandali con suola robusta (da utilizzare anche in acqua)
occhiali da sole
Attrezzatura per il mare
maschera sub con boccaglio (si raccomanda di portarla ben protetta nel bagaglio a mano)
pinne
guanti da mare o da pesca
Attrezzatura cinefotografica
fotocamera con pile di scorta
videocamera con pile di scorta
caricabatteria per videocamera
Attrezzatura per la notte
sacco lenzuolo o sacco a pelo leggero
almeno una federa
mascherina da notte
calzerotti
Attrezzature e oggetti vari
coltello milleusi (attenzione ai controlli negli aeroporti)
torcia frontale con pile di scorta
pinzette per bucato
accendino
set cucito d’emergenza
alimenti personali (suggerito latte condensato)
un paio di buste di tela o di cellophan per riporre indumenti od oggetti sporchi o bagnati
nastro adesivo impermeabile
sveglietta da viaggio
posate da campo
bicchiere o boccale infrangibili
borraccia
per gli appassionati, bussola o GPS
per gli appassionati, carte da gioco
Sanitari e medicinali
borsino da toilette (attenzione alle forbicine!)
sapone e shampoo per acqua di mare
potabilizzatore micropur o simili
protettori solari
antistaminico, antidolorifico, antipiretico, antinfiammatorio
medicinali di uso personale
medicinali di profilassi del viaggiatore